La nausea bianca

di Elena Ciurli

Dopo un lungo periodo di latitanza torna un nuovo racconto allo Ziggy’s Cafè.

Si parla di quei bocconi indigesti che la vita ti piazza spesso sullo stomaco, roba che non basta un antiacido per disintegrarla.

La Nausea bianca è una storia dal sapore amaro.

effetto farfalla

Possiamo passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo.
Sani di mente o pazzi. Eroi o vittime.
A lasciare che la storia ci spieghi se siamo buoni o cattivi.
A lasciare che sia il passato a decidere il nostro futuro.
Oppure possiamo scegliere da noi,
e forse inventare qualcosa di meglio è proprio il nostro compito.
(Chuck Palahniuk)

Guardo fuori dalla finestra della mia camera ed è sempre lo stesso quadro: tutto è già stato fissato; gli alberi sono sempre lì a tenere insieme il terreno con le loro enormi radici, le panchine immobili aspettano di raccogliere qualche fagotto stanco, la ghiaia del selciato stride sotto le ruote delle auto che entrano nel parcheggio. E i due gatti neri, anche loro fermi, a godere del sole con piacere felino.

Sto bene qui, è tutto semplice. Nulla muta tranne me, e qui non devo temere, non devo esitare, mai.
Mi sono sempre nascosta da tutti, anche dalla mia paura. Ma quando mi sono seduta e le ho permesso di parlarmi, e l’ho ascoltata, allora è lì che ho cominciato a desiderare davvero.
Non mi sentivo più invisibile, non dovevo più esserlo.
«Ecco signora, beva la sua camomilla.»
«Aspetta, tu sei nuova, vero? Siediti con me.»
«Va bene, ma solo qualche minuto, devo finire il giro.»
«Voglio dirti perché sono qui.»

Mi lascio andare sulla poltrona di nylon azzurro, quello lavabile, viene via ogni macchia corporea con un colpo di spugna, sono bravi qui; e lei si appoggia sul letto, una gamba piegata e l’altra rigida, pronta a scattare. Ma io devo farlo, devo parlarle, lei non mi conosce, ed è così giovane, ha ancora tanti giorni da vedere.

«Cominciò tutto con un’influenza, avevo 32 anni: virus gastro-intestinale, disse il mio medico. Incinta non ero di sicuro: l’ultima volta l’avevo fatto il 23 giugno 1987, con Bruno, il mio ex, 2 anni prima. L’avevo annotato sul mio calendario dei ricordi. Io scrivevo ogni cosa: le date importanti, le scadenze, gli incontri; veder tutto inciso su un foglio mi dava conforto. Quando rileggevo quei segni ero sicura che dovevo pur aver vissuto in qualche modo. Allora ero viva.»
«Signora, io dovrei» esita la mia piccola amica.
«Ancora un po’ di pazienza, riposati con me.»
Lei sospira guardando il soffitto in cerca di consolazione: credo che mi ascolterà.
«Quella nausea non mi abbandonava mai, non passava neppure con le dosi massicce di antiemetici, che mio fratello portava dalla sua farmacia. Avevo uno scoglio sullo stomaco, e galleggiavo in quel mare melmoso, tutto il giorno. Presi una settimana di malattia e le mie colleghe telefonavano da scuola preoccupate; la professoressa Salvadori che non si presenta a lezione:
impossibile. Non avevo mai avuto neanche un raffreddore in 8 anni di servizio; che spreco, io che avrei potuto prendere tutte le medicine che volevo, gratis. Mio fratello Alberto si sentiva in debito con me ed io non gli permettevo di ricambiare il suo amore chimico. Da piccolo era sempre malato, lui, il piccolino e io mi mettevo in un angolo per non dar fastidio a nessuno, anche se mi ero fatta male o mi usciva il sangue dal naso. I miei non permettevano altro che le sue infantili debolezze, io ero quella che non doveva dare problemi. Avevo imparato ad estraniarmi completamente: guardavo tutto dalla vetrina di un negozio. I miei si accorgevano di me solo se servivo loro per qualcosa, e così è stato per molto tempo, anche per tutti
gli altri.»
La giovane infermiera guarda l’orologio e si morde le unghie.
«Mi stai ascoltando?»
«Sì, ma ne ha ancora per molto? Non vorrei ricevere un richiamo, oggi è il primo giorno di lavoro»
«Stai tranquilla, potrai dire che me la sono fatta addosso mentre bevevo la camomilla e non ne volevo sapere di farmi lavare!»
«Ancora 5 minuti Signora Salvadori, poi vado!»
«La nausea cresceva e non riuscivo a trovare pace. Era un velo di alga bianca che mi ricopriva dai capelli, fino alle unghie dei piedi. Mi disgustava tutto: le tende di velluto rosa antico del salotto, i fiori secchi nel vaso di porcellana di mia madre, la foto della mia famiglia, dove io ero una bambola con gli occhi velati, i miei titoli di studio ben incorniciati da cm cubi di legno dorato e riccioluto.
Non mangiavo, non dormivo. L’unica cosa che mi dava conforto era la lettura, passai ore infinite a leggere. Quei giorni erano fatti di anni. Poi trovai un vecchio quaderno, dei tempi dell’università, era un mio saggio sulla teoria del
caos e l’effetto farfalla. Non ricordavo di averlo scritto, come potevo essere stata così cieca per tutto quel tempo? La mia salvezza era lì, scritta su una pagina ammuffita! Io sarei diventata quella farfalla, avrei sbattuto le ali secondo le mie variabili e tutto sarebbe cambiato, in modo irreversibile.
Corsi in bagno a vomitare, mi facevano male gli occhi, mi bruciai la gola e mi sentii così stanca che mi addormentai sulle piastrelle di marmo. E poi tornai a scuola.»
«Signora, io dovrei, devo, vado via!»
«Come vuoi. Apri il cassetto e passami il piccolo registratore»
«Cosa?»
«Sì, il registratore, sei sorda? Incido la fine della mia storia sulla cassetta, così poi la puoi
sentire a casa. Quando comincio non posso più fermarmi.»
Brava ragazza e ora vai via, devo continuare!

La cassetta non è nuova, metto tutto indietro e premo REC. Ne ho regalate tante di cassette così, a pazienti, amici, sconosciuti. Le mie ali continuano a battere e smuovono l’aria di chi ne ha bisogno.

«Decisi di iniziare con la professoressa Diana, storia e filosofia, mia grande amica, amava le donne, ma i suoi genitori erano molto religiosi e non sapevano neanche lontanamente della sua natura. Mi diceva sempre che sarebbe voluta nascere uomo. Io la accontentai.
Era un lunedì, pausa caffè in sala professori, una delle tante altre anonime pausa caffè ripetute in serie. Le rubai dalla farmacia di mio fratello: piccole pillole di testosterone da sciogliere nel latte macchiato di Diana.
La vedevo che cambiava, con la sua pelle ruvida e i peli duri, e la voce più cupa. Era felice, sì, era radiosa, anche se non me lo diceva. Ero il suo volo.
Poi fu il turno della professoressa Maria, storia dell’arte, una gabbia di violenza. Suo marito abusava di lei, da anni ormai. Troppe volte era venuta a scuola con grandi occhiali da sole a coprire i suoi sguardi viola, gonfi di lacrime. Presi delle fiale di veleno di vario tipo, gentilmente offerte dalla farmacia di Alberto. Scrissi su un foglio le modalità d’uso, con dosaggi, tempi di azione ed effetti collaterali. Ci misi anche 3 siringhe, per non lasciare niente al caso, e feci recapitare il tutto
in un bel pacco anonimo a casa di Maria, di sabato mattina, perché lui non era in casa. Dopo qualche giorno tornò a scuola e mi confessò che le sue preghiere erano state esaudite.
Non le feci domande, ma ero sicura che parlava di me. Ero le sue ali.
Lei la lasciai per ultima, la mia fedele amica Serena. Insegnava fisica nella mia classe. Era sempre stata grassa; le sue caviglie, due grandi tuberi su piedini minuscoli. Camminava sul mondo rischiando di cadere ad ogni passo, povera cara. Mangiava tutto ciò che si trovava davanti, dolci soprattutto, ne teneva sempre una scorta nel suo armadietto.
Più desiderava dimagrire, più cresceva. Riempiva quella mancanza di volontà con valanghe di burro e cioccolata. Ci pensai io a toglierle la fame. Alberto aveva delle nuove compresse che vendeva sotto banco alle sue ricche clienti pronte a tutto.
Il nostro consueto thè pomeridiano diventò il momento ideale per volare sul suo corpo sformato e liberarlo da quelle pieghe di sofferenza lipidica. 3 cucchiai di zucchero e 1 pastiglia di anoressizzante, dal lunedì al venerdì, a volte anche il sabato.
Serena non aveva più fame, non ne avrebbe avuta per un bel po’. Mi disse che si sentiva così bene, e vuota, come non lo era stata mai. Ero la sua farfalla.
Mi sentivo piuttosto soddisfatta, ma volevo che tutti sapessero, prima di continuare. Non ero
più invisibile, servivo agli altri perché avevo deciso io di sbattere le ali.
Scelsi il giorno dell’assemblea d’istituto, dopo l’intervento del preside, parlai delle gite primaverili e poi lo feci: raccontai tutto e come avevo liberato le mie amiche dalla nausea che le teneva prigioniere. I loro occhi, quegli abissi di gratitudine mi abbracciarono e iniziai a piangere. Poi mi portarono via.»

«Signora, metta via quell’affare e venga a letto, deve prendere le sue pillole.»
Cambio turno, ecco la rozza infermiera capelli rosso porpora. Butto giù le mie dolci amiche colorate. Sto bene qui, è tutto più semplice.

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