Questa settimana continuano gli esperimenti: del racconto di Cristina Quochi è andata persa la colonna sonora, e allora abbiamo incaricato Andrea Fanetti, sempre disposto a mettersi in gioco, di darci una mano, trovando una canzone che potesse adattarsi a questo testo.
Unica indicazione imposta dall’autrice: che ci fosse solo musica, senza parole. Andrea ha sentito subito la necessità di scegliere qualcosa di molto dolce e ha passato in rassegna molti dei suoi brani preferiti. La scelta è ricaduta su “Il dono del cervo”, di Angelo Branduardi, un brano dolce e fiabesco che, secondo Andrea, appartiene al periodo migliore di questo cantautore. Per rispettare la volontà di Cristina, qui ascolterete la versione solo musica. Se vorrete, andate a cercare la versione integrale dopo che avrete letto il racconto.
N.B: Per il momento vi auguriamo buona lettura, buon ascolto, e naturalmente buone feste!
– E il lupo disse col suo vocione: “Apri questa porta, porcellino! Se non apri io soffierò così forte, ma così forte che la tua ridicola casetta di paglia volerà via!”
Gaia mi guarda coi suoi grandi occhi rotondi sgranati dalla paura. Gliel’avrò letta cento volte questa storia, ma ogni volta l’ascolta con la stessa trepidante partecipazione. Mi tuffo nel suo sguardo rapito, facendo una pausa ad effetto. E un attimo prima che l’incantesimo si spezzi proseguo con la vocina più nasale che riesco a tirar fuori:
-“No che non ti apro, brutto lupaccio cattivo! La mia casa non volerà, vedrai!” Sciocco porcellino! Credeva davvero che una misera casetta di paglia potesse fermare la fame furiosa del lupo! E così il lupo fece un gran respiro gonfiando i polmoni più che poteva… diventò grande e grosso come un pallone… e poi cominciò a soffiare: FFFFFFFFFF!!-
E anch’io mi gonfio, roteo gli occhi come un pazzo assatanato e soffio, soffio su di lei che strilla un po’ di gioia e un po’ di spavento, cercando di ripararsi dietro le piccole braccia paffute.
– E la casetta di paglia volò via, e il lupo si avventò sullo sciocco porcellino e se lo mangiò in un boccone! – allungo le mani con le dita protese ad artiglio verso di lei, che svelta salta a terra e si mette a correre in giro per il salotto, girando intorno al divano e strillando come se davvero fosse un porcellino portato al macello.
La rincorro con un’andatura che, a dire il vero, più che da lupo è da zombie, ma che è comunque di grandissimo effetto: cerco di essere goffo e lento quanto basta a prolungare il gioco di qualche manciata di secondi ma non riesco a resistere a lungo: un po’ per gli strilli che trafiggono le mie orecchie insieme a quelle di tutto il condominio, un po’ per la smania di sentirmi tra le braccia quel tenero fagottino profumato che è mia figlia. Così, dopo appena un paio di giri attorno al piccolo divano stropicciato l’afferro con gioiosa baldanza e la stringo fra le braccia, affondando la mia faccia nel pancino rotondo irrigidito dalle grida e dalle risate. Dio, come profuma! Sa di buono, di innocenza, di gioiosa fiducia nel mondo, di allegra spensieratezza. Strofino la bocca e le guance ruvide di barba su quel corpicino soffice e lascio che le sue grida deliziate raggiungano l’apice prima di posarla di nuovo a terra. La adoro.
– E ora, mia cara cucciolotta, ce ne andiamo a letto…
– No! No!!
Ancora no. Sempre no. Sembra che i bambini a quest’età non sappiano dire altro. Adoro anche i suoi no, anche se a volte mi fanno diventare matto. A volte mi chiedo se con Chiara sarebbe diverso, se lei sarebbe capace di far breccia nel suo muro di ostinazione più di quanto riesca a fare io. Ma Chiara non c’è ed è inutile starci a pensare. Serve solo a mettermi tristezza. Ed essere triste, stasera, è l’ultima cosa che voglio.
-Sì che ci andiamo. Ti racconto un’altra storia, dove non ci sono lupi che fanno strillare le bambine e i porcellini. Ti racconto la storia… – lascio la frase in sospeso, fingendo di passare mentalmente in rassegna tutto il mio repertorio. Tanto lo so che fra poco…
-Di Raperonzolo! – strilla Gaia tutta eccitata.
Opporc..! Odio Raperonzolo con tutto me stesso, eppure accolgo la sua richiesta con quel po’ di entusiasmo che riesco a simulare, la prendo in braccio e la porto in camera. Il suo lettino con le sbarre è accanto al grande letto matrimoniale dove Chiara mi manca ancora, ogni notte. Ci sdraiamo insieme sul lettone e comincio a raccontare, accarezzando piano i suoi riccioli neri, le sue guance rotonde, il suo nasino minuscolo, perfetto. La sua piccola mano gioca con le mie dita e io le accarezzo il palmo con la punta del pollice, descrivendo piccoli cerchi lenti che la rilassano a poco a poco. Per fortuna si addormenta prima che l’odiosa Raperonzolo debba srotolare giù dalla torre la sua lunga treccia d’oro. Le sfioro la fronte con un bacio e la prendo delicatamente fra le braccia, spostandola verso il centro del letto, per essere sicuro che non cada. Da una parte e dall’altra metto i due cuscini, a mo’ di barriera. Dorme come un sasso, la mia piccina.
Torno nell’altra stanza, mi siedo sul divano allungando le gambe davanti a me e poggiando i piedi sul tavolinetto da fumo, accanto al cellulare. Sono le 11 di una calda serata di inizio estate e non so decidermi ad andare a letto. Sono stanco e stanotte ho del lavoro da fare, ma ho una voglia matta di lei, stasera. Ho voglia di sentirla, di parlarle, di toccarla. Accendo la tv, cercando un po’ di oblio a buon mercato. Passo da un canale all’altro senza neanche vedere le immagini che mi sfilano davanti, tenendo il volume bassissimo per non disturbare Gaia. No, è inutile. Spengo e vado a buttarmi sul letto, accanto a lei, ascoltando il suo respiro leggero e regolare che mi culla e mi rassicura. Lei è la mia casetta di paglia, dove ogni sera trovo rifugio cercando di sfuggire al mio dolore, alla mia tristezza. E poco importa se al mattino qualcuno soffierà e io mi sentirò di nuovo nudo e indifeso, in balia del mondo.
Ora sono qui, con lei. Che è parte di me. Come Chiara.