Questo giovedì faremo un viaggio nella mente tormentata di Oscar, protagonista del racconto NON RISPONDERE, di Massimo Campigli.
N.B=Fate silenzio, abbassate le luci e fate partire la canzone. Buona lettura.
Erano le 12:00 all’orologio della sala, le 12:00 a quello della cucina, le 12:00 a quello in camera mia e le 12.00 a quello che portavo al polso.
Quindi ero a tavola.
“Quel tovagliolo non va proprio bene!”
Mamma allungò solo lo sguardo verso di me, con quel sopracciglio che si inarcava sempre e le labbra serrate, a trattenere la stizza. Senza dire una parola si alzò, fece il giro del tavolo per raggiungere il posto di Valerio e accarezzando la stoffa tolse quella grinza insopportabile.
Non riuscivo più a tollerare mio fratello; non c’era, nossignore, un solo motivo per cui fosse normale che ritardasse così! Le 12:01 all’orologio della sala! Voleva forse impedirmi di mangiare? Voleva davvero che non avessi più neanche la forza di alzarmi da quella sedia? Avevo bisogno di mangiare, dovevo mangiare! Il cibo che scende nello stomaco, sminuzzato, viene assorbito e trasformato in energia vitale.
Sentii la porta aprirsi e velocemente richiudersi; qualche passo; io non avevo neanche sollevato la testa dal mio piatto bianco.
“Ciao ma’”
“Valerio…” il tono perentorio era stato accompagnato da un colpetto di testa a indicare l’orologio.
“Lo so, lo so… non trovavo parcheggio”; poi li sentii sottovoce:
“Lui come sta?”
“Come vuoi che stia? Come al solito. Almeno oggi, quelle da 250 le ha prese!”
I due cilindretti, quello blu e quello nero, erano affiancati al mio bicchiere. In uno pillole per i sogni, nell’altro quelle per gli incubi.
“Hey, campione: davvero non hai preso le pillole nere neanche oggi?”
“Nossignore, no, non le ho prese!”
Si era appoggiato con le mani sulla spalliera della sedia e mi guardava con quella faccia da schiaffi, di là dal tavolo.
“Lo sai che devi prenderle. Mi dici per quale ragione non le vuoi più?”
“Perché quelle nere sono velenose. Quando le metto in bocca non scendono: salgono verso il cervello e rimangono lì. Io le sento, le sento tutte.Sento che ho la testa piena di pillole pronte ad avvelenarmi!”
“Oscar, porca puttana, ci manderai tutti fuori di testa! Piantala! E prendi quelle pillole!”
“Nossignore! Voglio solo le mie 24 rotelle”.
Valerio espirò l’aria che aveva nei polmoni, lasciando cadere la mani dalla spalliera, ma aveva buttato fuori solo l’ennesima porzione di amarezza. Poi i loro occhi stanchi si incrociarono.
…22, 23, 24, 25.
“Nooo!” gridai.
Una forchetta si affacciò veloce nel mio piatto, infilzò un pezzetto di carota e si ritrasse.
24.
24 andava bene.
24 andava bene perché potevo assorbirne solo una ogni ora.
24 andava bene perché solo così potevo difendermi da loro.
Dovevo fare attenzione a ogni movimento, dovevo pensare a ogni mossa, misurare le parole.
In cucina poi, rischiavo la vita in ogni momento; vulnerabile, esposto agli attacchi, subivo continuamente i loro test: misuravano la mia voce, mi fotografavano, schermi ovunque, microonde, lampi di luce, correnti alternate e onde radio.
24 e poi via di qui!
Che poteva essere una trappola, però, lo avevo sospettato da tempo: troppi contatti, troppi fili sparsi ovunque; non facevano che controllare i miei spostamenti e forse, dico, forse, anche loro due erano parte del piano. Li avevo sentiti mettersi d’accordo tra di loro, progettare incontri e architettare piani di intervento alle mie spalle; sapevo che, in qualche modo, volevano controllarmi, sfruttare le mie capacità, utilizzare le mie risorse. Ma io non sono stupido, nossignore, e avevo capito prima di loro!
È così che li ho beccati!
Comunicano in codice, attraverso macchine che criptano il linguaggio per poi decriptarlo solo quando uno di loro utilizza la macchina.
Purtroppo l’ho capito tardi, solo da poco tempo sono riuscito a inserirmi nei loro sistemi: la macchina si trova in soggiorno, nascosta tra gli altri congegni.
Ma io ho visto il filo.
La prima volta, anche se terrorizzato, mi sono avvicinato quasi strisciando mentre mia madre era in cucina; ho sollevato la maniglia e ho provato ad annusare.
Niente, nessun odore.
Poi un impulso, anzi, una sequenza di impulsi! Eccoli, sono loro!
Mamma però è uscita proprio in quel momento.
“Oscar che stai facendo?”
Neanche l’ho sentita: ho stretto la maniglia tra le mani senza ascoltare altro, era fondamentale che riuscissi a capire!
“Oscar posa quella cornetta.”
Stringevo gli occhi e serravo i denti, i muscoli contratti delle mani, dello stomaco.
“Oscar vuoi posare quella cornetta per favore!?”
“Nossignore!”
Quando si è avvicinata per strapparmi la maniglia dalle mani, ho sentito gli occhi gonfi di sangue, pieni di lacrime.
La seconda volta sono riuscito ad avere più tempo.
La stessa sequenza, cadenzata, dopo poco aveva aumentato il suo ritmo! Non avevo trattenuto l’emozione: ero sicuro di essere a un passo dal capire; potevo finalmente sapere che cosa si stavano dicendo!
Poi i tacchi di mamma in avvicinamento… ma non potevo interrompere proprio adesso: senza allentare la presa, decisi di scappare, mi buttai giù per le scale della cantina, tirandomi dietro maniglia, filo, macchina, e il mobile su cui era appoggiata! Quando mamma riuscì a rimettermi in piedi, vide che sanguinavo da un piccolo taglio sotto il mento. Non dette importanza a quello che era successo, in fondo era stato solo l’ultimo dei guai che avevo combinato in casa. Era in ritardo, chiamò Valerio.
“Disinfettalo e mettigli un cerotto. Io devo andare e, mi raccomando, digli di non rispondere al telefono, soprattutto se non squilla”.